“Cesarina, la mia piccola
sorella, è morta fra le mie braccia…Ho voluto lavarla…ricomporla io stessa:
parve addormentata appena le ebbi chiusi per sempre i grandi occhi cerulei. I
capelli finissimi le formavano attorno al visetto bianco una cornice di oro
pallido…Mia madre già prima della fine era stata condotta altrove…: poverina,
innanzi i trent’anni ha messo al mondo dieci figli e questa è la quarta bambina
che le vien tolta dalla morte…”.
Cominciano così le memorie di
Grazia Pierantoni Mancini (1841-1915), con il cuore, in punta di piedi. Inizia così il suo
piacevolissimo diario, con il ricordo della sorellina di due anni, la cui morte
lasciò una ferita insanabile nell’anima della scrittrice.
Prima figlia di Pasquale
Stanislao Mancini e Laura Beatrice Oliva, Grazia, all’età di otto anni, si
trasferì da Napoli a Torino, per raggiungere il papà, esule nella capitale
piemontese a seguito delle persecuzioni della polizia borbonica dopo i moti
rivoluzionari del ’48. Grazina, come la chiamava il padre, con un
linguaggio semplice e accattivante ripercorre, in un intreccio ben congeniato
di memorie storiche e ricordi autobiografici, le complesse vicende di uno dei
decenni più affascinanti dell’Ottocento (1856 -1864).Stanislao Mancini, che diventerà figura di spicco della politica italiana di fine secolo, all’epoca illustre professore di Diritto Internazionale, sempre pronto a combattere le battaglie per il sogno unitario, era in quegli anni una figura di riferimento per tutti gli esuli napoletani a Torino. Casa Mancini era così un vero e proprio luogo di ritrovo, di aggregazione: un salotto culturale e politico dove la scrittrice ebbe modo di conoscere e frequentare molti protagonisti del nostro Risorgimento. Uomini come Carlo Poerio, Silvio Spaventa e Luigi Settembrini, che per l’acerba poetessa rappresentavano “…eroi sconosciuti da romanzo, e li amavo e veneravo come si adorano i santi”. A Torino Grazia frequentò l’Istituto femminile Elliot, dove ebbe la fortuna di conoscere e diventare allieva di Francesco De Sanctis, con cui mantenne anche un rapporto epistolare, dopo l’esilio forzato che costrinse il “suo” professore a Zurigo.
Un libro testimonianza quello della Mancini in cui, tra le pagine, è possibile respirare l’atmosfera di quel periodo e cogliere i sentimenti, le profonde emozioni che albergavano in chi ebbe la fortuna di vivere in quegli anni. Uno spaccato di vita del nostro Risorgimento, in cui vicende famigliari e aneddoti storici si fondono con sorprendente armonia; una scrittura piacevolmente timida, da cui tuttavia traspare tutto l’orgoglio e la nostalgia dell’autrice per gli anni della sua giovinezza, ricchi di passione e di ideali, vissuti intensamente, con profonda partecipazione dalla scrittrice.
Grazia Pierantoni-Mancini, nello scrivere quest’opera, sembra abbia seguito i consigli del suo illustre professore:
“ …ho letto i tuoi versi,
….un’anima nobile scrive non per aver fama ed onori; scrive per dovere, per
esercitare le sue facoltà; scrive per bisogno, per dare uscita alle sue forze
rigogliose.”
Il libro uscì in prima edizione
a puntate nella rivista “Nuova Antologia”, tra il febbraio e l’agosto del 1907,
con il titolo “Giornale di una giovinetta”. L’opera andò poi alle stampe nella
versione definitiva l’anno successivo (Milano, L.F. Cogliati, 1908); la
ristampa è oggi acquistabile presso i principali online store.
Buona lettura.
Cristiano Morucci.
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